Se fosse una favola inizierebbe con un classico: “C’era una volta lo Zibibbo”. Ma questa non è una favola, nonostante il lieto fine: è una storia. La storia di un bambino, di una famiglia, di un vigneto e di una terra che sa come puntare i piedi. D’altronde, si trova nella parte dello “stivale” più congeniale per farlo.
Siamo in Calabria, in quel Mezzogiorno che Benedetto Croce chiamò “paradiso abitato da diavoli”, una goccia nel mare delle etichette appiccicate a questo angolo di Magna Grecia.
Ma se certi luoghi non esistono se non attraverso le parole che li evocano, se cambiassimo registro – e prospettiva – cosa accadrebbe al paradiso, ai diavoli e al Mezzogiorno? Se il pregiudizio si alimenta su un gioco in cui lo sguardo è accecato dallo stereotipo, allora servono nuovi occhi. Scevri da nuvole e da quella rassegnazione che sgrana un rosario di “tanto non c’è niente da fare”, “ma che resto a fare?”, “meglio andarsene”.
Alexandre Dumas nell’Ottocento nel suo “Viaggio in Calabria” parlava della “potenza di quella legge che si chiama ospitalità”. E l’accoglienza, in effetti, è uno dei tratti che disegnano il prodotto “calabresità” (insieme a passionalità, gastronomia e giù a scendere verso bellezze paesaggistiche e patrimonio culturale non adeguatamente valorizzato). Se il cambiamento inizia dalle parole e dallo sguardo, c’è chi ci ha visto lunghissimo.
È Giovanni Celeste Benvenuto (accoglienza nomen omen): il papà originario di Pizzo Calabro si lascia alle spalle il suo paese. Fa prima tappa a Roma e poi, per amore, si trasferisce in Abruzzo. È a Tagliacozzo (in provincia de L’Aquila) che cresce Giovanni. Circondato dalle montagne non può però ignorare il richiamo del mare: un canto di sirene che lo riporta ogni estate in Calabria, dai nonni, a mangiare merendelle e bearsi dei vigneti. È la sua Itaca.
È dopo l’esame di maturità che scatta l’ora X: il Mezzogiorno avrebbe spostato le sue lancette. Era giunto il momento di cambiare città, casa e vita. Per la vite. Un viaggio a ritroso, insomma, a scendere verso l’infanzia per coltivare un sogno e una terra. Mentre studia Agraria all’Università degli Studi Mediterranea di Reggio Calabria, Giovanni si dedica alla terra e, per Francavilla Angitola (Vibo Valentia, a due passi da Pizzo Calabro), va in giro a bordo di un trattore. C’è solo un tempo adesso ed è tutto da coniugare al futuro: recuperare. La memoria, un’usanza e le vigne del nonno abbandonate. Un lavoro da fare dalla A alla Z, cominciando proprio dalla fine. Perché risponde alla voce Zibibbo la vocazione di Giovanni e di questo territorio.
Come in Sicilia, furono i Fenici, durante le loro rotte commerciali, a portarlo in Calabria. Baciato dal sole e lambito dai venti della Costa degli Dei, lo Zibibbo trovò subito naturale espressione nella versione secca. Salendo in collina (siamo a 350 metri sul livello del mare), infatti, il grado zuccherino che si accumula nell’uva è decisamente più basso. Di conseguenza, durante la fase di fermentazione tutti gli zuccheri si consumano. È così che nasce la tradizione del luogo: un vino da tavola, da bere a tutto pasto, per Bacco.
Eppure, nel tempo, lo Zibibbo ha fatto il salto da abitudine a solitudine: nessuno lo coltivava più, nessuno se ne preoccupava. Non solo. In corso d’opera, Giovanni scopre che in Calabria la legge non ne prevedeva neppure la vinificazione. Burocrazia portami via, è il 2013 quando la Regione adegua questo registro e dà l’ok: dalla trafila ai filari delle vigne del nonno di Giovanni, lo Zibibbo di Pizzo (riconosciuto pure come Presidio Slow Food) comincia a finire nelle bottiglie – oltre che sulle mappe, dal momento che il comune chiama la strada che porta in azienda “via dello Zibibbo” – a marchio Cantine Benvenuto. Un percorso fatto di orgoglio marsicano e amore per Francavilla Angitola. Una partenza e un arrivo.
L’arrivo sulle colline terrazzate che guardano verso il mare dove le escursioni termiche e il terreno a matrice granitica danno vini sapidi e minerali. I vitigni, poi, raccontano il resto. Lo Zibibbo in particolare, da buon figlio di famiglia dei Moscati, si apre in un ventaglio aromatico molto ampio.
Si apre pure a frontiere oltreoceano. È il New York Times che lo scorso maggio, in un servizio a firma del critico Eric Asimov, annovera lo Zibibbo Benvenuto tra le migliori dieci bottiglie di bianco disponibili a meno di 25 dollari. Audentes fortuna iuvat è il motto della cantina in quel di Francavilla Angitola: l’audacia c’è e se n’è accorta pure l’enologia a stelle e strisce. E non solo quella, in realtà. Francia, Regno Unito, Canada, Svizzera, Polonia, Germania, Repubblica Ceca e Kirghizistan sono mercati che hanno già visto la bandierina di conquista Benvenuto.
Oggi Giovanni, produttore, agronomo ed enologo di Cantine Benvenuto, produce sei etichette IGP. Sono vini naturali e non filtrati dall’accento spiccatamente calabrese. Zibibbo, Malvasia, Magliocco, Greco Nero, Calabrese: solo vitigni autoctoni – lavorati in regime biologico – danno voce al territorio e mandano al diavolo stereotipi e paradisi. C’è lo Zibibbo in purezza secco, secondo antica tradizione quindi, ma non solo. C’è il passito, il bianco tagliato con la Malvasia e pure l’Orange (sempre da uve Zibibbo), primato calabrese in fatto di bianchi macerati. E poi il rosso e il rosato.
“Celeste”, “Terra”, “Mare”: già nel nome l’omaggio alla culla delle vigne è lampante. Un po’ come rendere una gentilezza, come quando ti invitano a cena e, in segno di ringraziamento, porti un buon vino perché ti senti il… Benvenuto.